L’equilibrio della natura non esiste (e non è mai esistito!)

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Renzo Motta, del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA), dell’Università degli Studi di Torino, Grugliasco, ha pubblicato sulla rivista della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF), Forest@, un interessante articolo sull’equilibrio naturale e su alcuni dogmi che lo accompagnano. E così, per decenni gli ecologi e i gestori delle risorse naturali hanno operato sul presupposto che la normale condizione della natura, se non disturbata dall’uomo, è uno stato di equilibrio chiamato omeostasi. Questo paradigma ha portato alla dottrina, popolare soprattutto tra gli ambientalisti, che la natura sa far da sola e che l’intervento umano è negativo per definizione. Negli ultimi decenni nuove evidenze hanno portato gli ecologi ed i gestori delle risorse naturali ad abbandonare questo concetto o a considerarlo irrilevante. Il nuovo paradigma è che gli ecosistemi sono in costante cambiamento e il motore principale di questo cambiamento sono i disturbi naturali (come fuoco, vento, insorgenza di insetti). La diversità biologica dipende dal disturbo naturale, pertanto la conservazione e la gestione delle risorse naturali devono tenere conto del ruolo fondamentale di questi eventi.

 

 

Gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati caratterizzati da una piccola “rivoluzione” nelle ricerche sulle successioni e sulle dinamiche forestali provocata dal pieno riconoscimento del ruolo svolto, in questi processi, dai disturbi naturali definiti come “eventi che modificano la struttura del popolamento e/o la disponibilità di risorse e l’ambiente fisico”.

Questa rivoluzione è stata supportata da numerose pubblicazioni scientifiche ed in particolare dal libro “The ecology of natural disturbance and patch dynamics” di S.T.A. Pickett e P.S. White che hanno evidenziato come in tutti i processi di successione (o di dinamica forestale) si verificano numerosi disturbi di bassa magnitudo, che non provocano la sostituzione del popolamento ma che contribuiscono alla variabilità strutturale, e come tutti i processi di successione terminano (e iniziano) con un disturbo di magnitudo più elevata (“stand replacing disturbance”) che provoca la sostituzione quasi completa del popolamento precedente.

In questo nuovo paradigma il concetto Clementsiano di “omeostasi” è stato sostituito dal quello di “regime di disturbi naturali” (caratterizzato da uno o più tipi di disturbo prevalenti, tempi di ritorno, estensione, magnitudo di questi e “legacies”, cioè residui lasciati dopo ogni disturbo) ed il concetto di climax (stadio finale del processo di successione) è evoluto in old-growth forests o boschi vetusti che possono mantenersi (in un regime caratterizzato da più o meno frequenti disturbi di magnitudo non elevata) anche per periodi di tempo molto lunghi (fino a quanto un disturbo di magnitudo elevata non ne provoca la sostituzione con specie pioniere).

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Questa svolta epocale è stata presentata al grande pubblico in un articolo comparso sul New York Time il 31 luglio 1990 a firma di W.K. Stevens dal titolo: “New eye on nature: the real constant is eternal turmoil”. In quest’articolo W.K Stevens affermava che molti ecologi avevano tradizionalmente operato partendo dall’assunzione che la condizione normale degli ambienti naturali fosse l’equilibrio (il paradigma dell’omeostasi di Clements). Al contrario, le ricerche degli ultimi anni avevano portato la maggior parte degli ecologi a considerare il concetto di equilibrio non corretto o irrilevante (anche se questa posizione fosse già presente da molti decenni nel mondo degli ecologi a partire da Gleason che era contemporaneo di Clements) e sostituire questo con il nuovo paradigma secondo il quale la condizione normale degli ambienti naturali è il continuo stato di disturbo e di fluttuazione tra stadi differenti. Nella sua conclusione W.K. Stevens affermava che “in conseguenza delle nuove conoscenze acquisite i libri di testo dovranno essere riscritti e le strategie di conservazione (e gestione delle risorse naturali) ripensate”.

Ma questo nuovo paradigma come può cambiare le strategie di gestione delle risorse naturali?

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