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Perché temere la peste suina

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Corriere del Mezzogiorno del 13 gennaio 2022, pp. 1, 6

di Fabio Modesti

Il ritrovamento alcuni giorni fa in Piemonte di esemplari di cinghiale affetti da peste suina africana (PSA), indica che questa malattia infettiva epidemica, per la quale al momento non esiste un vaccino, è arrivata anche in Italia. Non è una malattia che si trasmette all’Uomo ma è una minaccia per gli allevamenti di suini poiché riguarda esclusivamente la famiglia dei suidi ed ha nei cinghiali i diffusori principali. Dopo Polonia, Germania ed altri Pesi nord europei, ora tocca a noi. La Puglia è lontana dal Piemonte ma la PSA ha una velocità di propagazione straordinaria e bisogna attrezzarsi molto presto, anche perché tra meno di tre mesi il Governo dovrà presentare alla Commissione UE uno specifico Piano di eradicazione. Circa due anni fa il Ministero della Salute ha diramato un Manuale delle emergenze da Peste Suina Africana in popolazioni di suini selvatici. In esso si dice, che «per migliorare la sensibilità del sistema di sorveglianza, […] ogni cinghiale deceduto indipendentemente dalla causa di morte (ad eccezione dell’attività venatoria) sia sottoposto a idoneo campionamento per consentire l’esecuzione della diagnosi di laboratorio della PSA» e che «EFSA (l’Autorità Europea per la Salute degli Alimenti n.d.r.) ha stimato che un sistema di sorveglianza passiva efficiente ed efficace dovrebbe essere in grado – in assenza di malattia – di segnalare, campionare e testare un numero di carcasse (cinghiali morti per cause non venatorie) pari circa all’1% della popolazione di cinghiale stimata ogni anno; in Italia – quindi – si dovrebbero testare almeno 5.000 cinghiali all’anno per una popolazione di circa 500.000 animali in periodo pre-riproduttivo». Ogni mese di ritardo nell’individuazione della presenza del virus può corrispondere ad una diffusione spaziale della malattia di circa 5.000-8.000 ettari e l’area potrebbe essere ancora più vasta nel caso la popolazione fosse sottoposta a pressione venatoria. La pratica della braccata – una delle modalità più utilizzate di caccia al cinghiale – in una zona infetta ma non ancora individuata come tale, può determinare una diffusione spaziale del virus di difficile gestione. La collaborazione con il mondo venatorio, quindi, dovrebbe essere uno dei veicoli principali per monitorare l’eventuale presenza del virus che – informa il Ministero della Salute – «sopravvive nella carne e nei visceri per 105 giorni, nella carne salata per 182 giorni, carne/grasso e pelle essiccata per 300 giorni e nella carne congelata per anni e rimane infettante anche nelle carcasse per diverse settimane in dipendenza delle temperature ambientali». Si può ipotizzare che, con una velocità dell’onda epidemica di 20-40 chilometri/anno e con capi di cinghiali cacciati di frodo con eviscerazione sul posto, la peste suina africana possa risultare una sorta di tsunami per gli allevamenti suinicoli. Basta immaginare che cosa possa accadere in Puglia per il prosciutto ed i salumi di Faeto e di Martina Franca.

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