Antonio Leone, docente ordinario di Pianificazione e valutazioni ambientali all’Università del Salento, spiega perché nelle alluvioni un uso del suolo non appropriato pesa molto (ma molto) più di qualunque scenario di cambiamento climatico, anche il peggiore
In copertina, immagine dell’alluvione di Valencia (Spagna) 29-30 ottobre 2024
di Antonio Leone
La rilevanza degli eventi alluvionali di quest’anno è tale per cui ogni premessa è superflua e vengo subito al dunque, con lo scopo di fare chiarezza su problemi complessi che spesso sono affrontati con superficialità dall’informazione e i decisori politici evitano di affrontare alla radice.
È innanzitutto da chiarire il ruolo dell’uso del territorio. Le acque di pioggia, in natura, solo raramente defluiscono in superficie perché la norma è l’assorbimento e l’infiltrazione in profondità, dove si accumulano nelle falde, che, per altro, sono una fondamentale riserva idrica. Chiunque abbia passeggiato in un bosco può farsi un’idea del suolo naturale: è chiara la sensazione di camminare su una spugna, che assorbe e manda in profondità l’acqua, riducendo i pericolosi deflussi superficiali.
Il problema del dissesto idrogeologico deriva dall’impermeabilizzazione del suolo, reso artificiale da edifici, capannoni, strade ecc., ma anche l’agricoltura intensiva ha il suo ruolo perché suoli sovrasfruttati hanno minore permeabilità. Contemporaneamente, la semplificazione del paesaggio, con l’eliminazione di siepi e macchie boscate e il degrado di muretti a secco e terrazzamenti, riduce la capacità di trattenuta e infiltrazione delle acque.
Bisogna essere quindi laici e chiari: un uso del suolo non appropriato pesa molto (ma molto) più di qualunque scenario di cambiamento climatico, anche il peggiore.
Ciò, ovviamente, non vuol dire sottovalutare l’altra faccia della medaglia, ovvero la questione climatica. L’autunno è il periodo di maggiore rischio perché il mare è ancora caldo, cosa che facilita l’evaporazione e, quindi, l’atmosfera risulta carica di enormi quantità di vapore, che condensa e genera le piogge, se per un qualche motivo l’aria si raffredda, ad esempio per lo scontro con catene montuose. Questo è il caso di Calabria, Liguria, Piemonte e, in genere, dell’Appennino, soprattutto sul versante tirrenico e il nord-est. Ne consegue il maggior rischio per i territori che si affacciano su questo mare, il più grande del Mediterraneo quindi l’area dove le quantità di vapore in gioco sono di gran lunga le maggiori.
Queste considerazioni sono comunque generali e non assolute, a causa della complessità e variabilità del clima, che non a caso in ambito tecnico e scientifico viene studiato in termini statistici. Ciò complica ulteriormente le cose perché la nostra attitudine mentale tende a ragionamenti deterministici, di ricerca di “semplici” relazioni di causa-effetto non adatte al tema, ma su cui troppo spesso si basano i mezzi di informazione e i decisori politici.
Ne conseguono errori e approcci approssimativi, in sintesi:
1) La scarsa memoria e contezza di problemi che rapidamente sono dimenticati. Gli eventi estremi si ripetono con lunghi tempi di ritorno per cui, terminato l’effetto emotivo del momento e il valore “commerciale” della notizia, tutto passa, fino all’evento successivo. I deflussi delle acque in superficie sono un fenomeno naturale, ma raro, quindi di lunghi tempi di ritorno. Ne consegue che l’impatto del cambiamento climatico consiste non tanto nel fenomeno in sé, quanto nella sua maggiore frequenza. Ancora: bisogna fare attenzione alla complessità perché non siamo nel campo deterministico ma in quello aleatorio delle probabilità. In pratica dire cambiamento climatico significa dire che è cambiata la scatola dove sono conservati gli eventi che di volta vengono “estratti” e quando capita quello estremo ci si deve chiedere se è avvenuto per un caso fortuito o perché l’urna modificata “contiene” più eventi estremi, che quindi vengono “estratti” più facilmente. Si intuisce che la cosa è molto delicata e va lasciata agli scienziati che studiano in continuità l’argomento. Il pubblico, la politica, con il filtro della ricerca applicata e della tecnica, devono acquisire l’informazione scientifica e provvedere di conseguenza evitando ogni semplificazione. Ci sono incertezze? Gli scienziati non sempre concordano? Ma è chiaro, siamo nel campo delle aleatorietà probabilistiche! Ma la cosa ha scarso interesse pratico, perché il principio di precauzione è d’obbligo, essendo in gioco le vite delle persone e l’economia di intere regioni.
2) Anche il tema “pulizia dei fiumi” è complesso e se ne parla spesso senza competenza, pensando (e semplificando) all’asportazione di qualunque ostacolo al deflusso dell’acqua. Questo è vero solo in parte perché ci possono essere controindicazioni: l’acqua libera di defluire acquista velocità e, quindi, aumenta il suo potenziale distruttivo a valle. Al contrario, un torrente ricco di vegetazione rallenta la corrente e trattiene l’acqua, sottraendola al deflusso distruttivo. Inoltre, l’accumulo in alveo di tronchi d’albero e ramaglie dipende anche dalla gestione dei boschi in collina e montagna, cui si sovrappone l’altro grande problema dello spopolamento delle aree interne, un problema sociale epocale che non può essere lasciato all’impatto mediatico ed all’emotività. L’agricoltura e il pascolo in collina e montagna erano un potente regolatore delle acque che si è perso con lo spopolamento. Occorre allora lavoro tecnico di elevata qualificazione perché sia la pulizia sia la vegetazione degli alvei devono essere armonizzate, decidendo di volta in volta dove è necessaria l’una e dove l’altra.
3) Consegue da quanto sin qui detto che la disputa sui finanziamenti non è il cuore del problema, è un’altra bacchetta magica di sapore mediatico perché quello che serve realmente è saper spendere, avere cioè contezza del dove, come e perché impiegare i fondi. Serve conoscere il sistema fluviale nella sua interezza, sia nell’alveo, sia soprattutto nel suo territorio, perché lì è l’origine dei problemi. Esempio: il suolo è più impermeabile? E perché? C’è un problema di urbanistica insipiente?
Il caso di Bari è da manuale in tal senso. Dopo la grande espansione urbana di fine ‘800, la città andò incontro a frequenti e disastrose inondazioni (1905, 1906, 1915 e 1926) che causarono decine di morti. Negli anni ’30 del ‘900 si è posto rimedio con il rimboschimento del territorio a monte (la Foresta di Mercadante) e con le canalizzazioni degli alvei a valle (Lama Sinata, Picone, Valenzano ecc.). Dopo quasi un secolo si può fare un bilancio decisamente positivo: il bosco ha esercitato sempre il suo “effetto spugna” sulle acque di pioggia. Eccezionalmente, quando la spugna esaurisce la sua capacità di trattenuta subentrano i canali intorno alla città. Questi ultimi hanno “lavorato”, ricevendo acqua in maniera significativa solo una volta in un secolo: nell’ottobre del 2005. E questo è normale perché le piene sono fenomeni naturali, purché non troppo frequenti.
Quindi certamente finanziamenti, ma dopo attenta strategia e integrazione e il caso Bari conserva tutta la sua attualità, a tutte le scale, regionale e urbana, con le opere strutturali idrauliche “tradizionali” sinergiche a quelle diffuse di rinaturalizzazione del territorio. Non solo il verde, ma anche tutte quelle opere che rendono il paesaggio più complesso e resiliente: muretti a secco, piccoli invasi, terrazzamenti, boschetti ecc.
Il verde deve avere precise funzioni, non basta la retorica sul numero di alberi da piantare (e meno che mai il green washing dei boschi verticali) perché prima del numero conta la funzione, ovvero: quanto il verde de-impermeabilizza il territorio? Quanto riduce l’isola urbana di calore?
Questa è la vera sostenibilità, non la semplice contabilità.
In conclusione, evitare il clamore mediatico e l’emotività conseguente, ma lavorare giorno per giorno con estremo rigore tecnico che attinge alla scienza. Le istituzioni già esistono, ma sono troppe: il tema “acqua” deve essere unico, oggi è troppo spezzettato fra autorità di gestione diverse, fra uso civile, industriale e irriguo, separate dal settore agricolo e forestale.
Praticamente assente è la pianificazione dell’uso del suolo rurale, che tanta prevenzione può fare. L’ottima legge 183 del 1989, “figlia” dell’alluvione di Firenze del 1966, si è dissolta strada facendo per poi essere abolita e il Piano di Bacino che ha istituito è rimasto programmazione di opere idrauliche e “rappezzi” territoriali. Né può essere altrimenti, visto l’ambito di applicazione a territori troppo vasti ed eterogenei per poter arrivare a pianificare l’uso del suolo, vedi il Distretto Idrografico, che governa la difesa del suolo per l’intera Italia meridionale.
Pianificare significa individuare le reali necessità e capire quali sono gli usi del suolo che incrementano il rischio e quali i rimedi, integrando quelli strutturali (canali, argini e pulizia degli alvei, quando servono) e quelli attraverso opere del paesaggio, con il verde come protagonista, purché funzionale concretamente al contrasto dei fenomeni.
Importantissimo a questo proposito è il recente Regolamento dell’Unione Europea (giugno 2024) sul ripristino della natura, che, tra l’altro, è molto chiaro sulla necessità di rendere i sistemi naturali funzionali alla regolazione del clima, a tutte le scale, dalla urbana alla territoriale.
Altrettanto importante è il ruolo, oggi assente, dell’urbanistica, vista la grande delicatezza della questione dell’impermeabilizzazione dei suoli edificati.
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